di Pietro Orsatti
Un sms ricevuto ieri sera: “Ma come si fa a vivere in questo paese?”. La domanda non è retorica. È la domanda che si fa ogni giorno una parte sempre più ampia degli italiani. Ogni giorno. E davvero non so chi possa negarne la fondatezza. Anche se spesso chi si pone questa domanda si è reso complice di questa degenerazione nazionale che sta andando a sintesi proprio nel 150esimo anniversario dell’unità d’Italia.
Questo progetto un anno fa nacque su uno slogan: “Non vogliamo più sentirci esuli in casa nostra”. In poco più di un anno la situazione, che già allora era drammatica, è perfino peggiorata. Se non precipitata. So già che Riccardo Orioles, vecchio resistente, leggendo queste righe si arrabbierà e non poco. E probabilmente mi chiamerà per dirmi di non fare il piagnone. Non importa, compà, non si può avere tutti lo stesso coraggio. E il coraggio a volte è anche ammettere che non ci si riesce, che non ci si arriva. E allora. Quel messaggio ricevuto ieri all’ora di cena lo faccio del tutto mio. Come si fa a vivere in questo paese?
Una canzone di Lou Reed, recitava: “Non è il momento delle celebrazioni, non è il momento delle pacche sulle spalle”. Non solo non lo è, ma prima che qualcuno possa solo dire “forse ne siamo fuori” ci vorrà molto e molto tempo. Indro Montanelli, in un’intervista di almeno quindici anni fa, affermava come non si potesse parlare di una carattere nazionale parlando degli Italiani. E proseguiva descrivendo gli italiani come ipocriti e furbi, pronti a cambiare casacca e bandiera alla minima e supposta convenienza, servili, pigri. Che di tanto davano segnali differenti con atti di esagerato coraggio, personale e quasi mai collettivo, di popolo, per poi tornare quietamente ad adagiarsi nel ventre della convenienza immediata, del “tiramo a campà”. Non so dargli torto, ora. Guardando cos’è questo paese oggi.
E c’è di peggio.
Non è colpa del peggior presidente del consiglio che si potesse immaginare e delle sue corrutele e delle sue orgette da basso impero, non è colpa della peggior classe politica d’Europa, non è colpa di una sinistra che ha perso parola e identità, non è colpa degli imprenditori che non fanno gli imprenditori se non con gli aiuti statali, non è colpa degli evasori fiscali, non è colpa di un sistema editoriale mai indipendente, non è colpa del disastro formativo e culturale del nostro sistema scolastico. È colpa nostra, di tutti noi, di questo popolo ormai senza identità ma con solo quasi sessanta milioni di pance.
In un paese normale, e non per forza “evoluto”, le piazze sarebbero piene di gente incazzata, ogni giorno. Chiedendo conto e teste. Niente di ideologico o chissà che. Chiedere conto. E invece no. Tutti a casa. Ogni tanto qualche sprazzo di protesta che si acquieta appena si rompono un paio di teste oppure se chi gestisce il potere delle cose distribuisce qualche regalia o favore. Personale ovviamente.
Mai collettivo. Non c’è niente di popolo o di popolare in questo stivale che non sorregge nulla. C’è solo la pagnotta.
Per poi, nel privato, mugugnare. Inno all’ipocrisia. In tutto il Mediterraneo, faccio un esempio facile facile, internet, Twitter, facebook, sono stati strumenti fondamentali negli ultimi mesi di informazione e organizzazione del popolo (popoli con un carattere e un’identità ovviamente) per dare il via a un’ondata di rivolte che stanno cambiando la storia come se non più della caduta del muro nell’89 o della presa del palazzo d’Inverno nel 1917. Noi abbiamo gli stessi strumenti. E li utilizziamo solo per il mugugno. Se uno dovesse basarsi su quello che circola su facebook in Italia si penserebbe che siamo in stato di perenne insurrezione. E invece no. C’è la Roma che gioca in Champions mercoledì, mio zio che mi raccomanda per un posto a una municipalizzata, quell’amico che mi fa togliere la multa, il favore da ricambiare, il voto da vendere, lo sconto sul mutuo, la finanziaria che mi fa andare in vacanza a buffo, eccetera eccetera. E quindi tutti a casa a incendiare le tastiere e a svuotare le piazze.
Potrei andare avanti raccontandovi le difficoltà di portare a compimento questo progetto, della stanchezza, delle frustrazioni, dei debiti, dei dubbi. Volevamo raccontare il paese e gli italiani. Ambiziosi. E ci stiamo accorgendo che non esiste né il paese né il popolo. Una truffa. E, ripeto, non diamo la colpa a Berlusconi, ai suoi soldi e alle sue televisioni. Non diamo colpa ai poteri forti, alle mafie e ai pezzi deviati dello stato. Non diamo colpa ai leghisti e ai fascisti. Il problema siamo noi. Che non esistiamo. Siamo, parafrasando Pessoa, un popolo di fingitori.
p.s. grazie a Sonia che quel Sms lo ha scritto
domenica 27 febbraio 2011
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